Bhutan

Bhutan. Che dire di questo paese così misterioso. Sapevate che è stato aperto al turismo soltanto nel 1974? È una meta così giovane, così inusuale, così impregnata di tradizione e spiritualità che non poteva non essere in cima alla mia lista dei desideri. Il Bhutan è anche molto caro. Devo quindi ringraziare il mio passato di Sales Manager per averlo potuto visitare.

Viene definito il paese della felicità ed effettivamente è l’impressione che a prima vista trasmette: non ho mai visto un aeroporto così incastonato nelle montagne, così piccolo, così silenzioso, così ordinato. Tutto sembra funzionare bene. Quando sono scesa dall’aereo mi sono per un attimo dimenticata di essere in Asia, ho pensato più alla Svizzera.

Il Re del Bhutan ha introdotto un approccio particolare all’economia del paese, creando il principio della felicità interna lorda. Il concetto si basa sulla filosofia buddista, mettendo la persona al centro dello sviluppo e riconoscendo che l’individuo ha bisogno di benessere materiale, spirituale ed emotivo.

Che idea fantastica, vero? Tuttavia non volevo cadere nella trappola e credere incondizionatamente alla storiella che si racconta in merito a questo paese. La mia diffidenza si è poi gonfiata anche grazie all’inconfondibile odore di Asia che ho respirato per strada, il “profumo” che svela i segreti.

È letteralmente proibito entrare in Bhutan senza una guida, scordatevi il backpacking, scordatevi il last minute e scordatevi la spontaneità! All’aeroporto mi aspettava Yeshey, un ragazzo più giovane di me con maniere più galanti di un signore ottocentesco. Non sono abituata a un uomo che mi apre la porta, che mi chiede se sono stanca o se ho dormito bene. Di solito è il contrario, ahimè.

Yeshey è stato con me tutta la settimana, non ho praticamente parlato con altri dato l’assenza di turisti. Mi ha spiegato vita morte e miracoli di tutti i Buddha, parenti ed amici dei vari Buddha. Del Re e delle regine. Si, reginE. Anche in Bhutan gli uomini sono poligami, “ufficialmente e non”, così ha detto Yeshey.

A tratti ero insofferente, paradossalmente mi sentivo in Corea del Nord, privata della libertà di passeggiare improvvisando la direzione o di mangiare quando e dove volevo io, lusso al quale viaggiando sola mi sono ormai abituata.

Abbiamo fatto trekking tutti i giorni in mezzo alla natura incontaminata, alle risaie, costeggiando laghi ed incontrando Yak lungo il percorso, asinelli e tante galline. Il silenzio della montagna unito al fatto di non parlare a volte diventava snervante. Può sembrare rilassante, ed in parte lo è, ma il fatto di essere sbattuti in faccia a sé stessi non è sempre gradevole sul momento. Sul momento, perché poi avviene una trasformazione.

Dopo aver scalato quella montagna ci si sente leggeri ed in grado di poter apprezzare il panorama che altro non è che ciò che sta dentro di noi, con i suoi pregi e i suoi difetti.

Ho mangiato come una disperata, tutto quello che mi veniva presentato in tavola. Probabilmente anche l’aspetto culinario faceva parte della rigenerazione interiore e quando sono arrivata in cima alla mia montagna sono stata in grado di vedere la realtà del Bhutan e del mio amico Yeshey.

Ho così scoperto che le persone vivono come nel resto dell’Asia, se non in modo ancor più umile: abitano per la maggior parte in capanne di paglia, mangiano seduti per terra nella posizione del loto e con le mani. La cucina Bhutanese è molto semplice, formata principalmente da riso, verdure e Chilly cheese. Yeshey non vede sua madre da più di tre anni poiché lei vive nella parte orientale del Bhutan, in campagna e, nonostante siano solo pochi chilometri di distanza, le strade da quella parte del paese sono talmente precarie che il percorso richiede 30 ore di viaggio. Gli aerei sono troppo cari per lui. Ah dimenticavo, la parte orientale non è battuta dai turisti. Il Re ha scelto di mostrare solo quella occidentale, con le casette ordinate e le strade pulite.

Il Bhutan si è assegnato l’etichetta della felicità grazie alla protezione politica, alla monarchia costituzionale che ne custodisce gelosamente l’integrità, chiudendo il paese al  resto del mondo. Se poi la gente vive per strada non fa nulla, l’importante è che non vengano visti dai turisti. Non esistono alberghi al di sotto delle tre stelle per noi europei. Solo trattamenti alto livello.

Ho chiesto a Yeshey se per lui il Bhutan è davvero il paese della felicità. Ovviamente ha risposto che si giustificando la risposta con il fatto che il governo preserva la foresta sul 60% del territorio totale. D’altronde Yeshey ha visitato il resto del mondo solo attraverso gli occhi dei turisti che scorta, non può permettersi un viaggio fuori confine, quindi un confronto.

Ma non è forse una situazione simile e allo stesso tempo diversa a quella delle nostre vite tanto libere ed uguali, vissute nell’illusione di poter decidere come dirigerle? Nella frenesia della continua insoddisfazione? Boh, forse lo è.

In questo panorama l’insegnamento più grande di questo paese è stato imparare a lasciarmi viziare e coccolare da piccoli comfort quotidiani, ad accettare di essere “servita” ogni tanto. Non ero abituata e spesso quando ci troviamo in tale situazione ci sentiamo in colpa o in dovere di. Non c’è invece nulla di male ad accogliere un buon trattamento, a volte così dev’essere senza troppi perché.

Nessuno dei miei ex fidanzati mi ha mai regalato un mazzo di rose. Solo caramelle, come si fa con i bambini. Mi è sempre stato detto “tu non sei tipa da fiori”. In realtà erano solo tirchi. Per questo sono diventati ex.

Assunto ciò, grazie al Bhutan ho capito che in futuro aprirò il mio cuore solo a chi mi regalerà un mazzo di fiori.

Ora vi sto scrivendo dalla Thailandia. Continuo a viziarmi fra massaggi, Yoga e buon cibo mentre fuori piove. Ma va bene così, sono circondata da tanto verde e, come insegna Yeshey, questo è abbastanza per ritenersi nel paese della felicità.