Tornare a casa

Erano gli ultimi giorni a Bali, una sensazione strana, non mi sentivo né di qui né di la. Ormai tutte le conversazionivertevano intorno al tema del Covid 19. Eravamo tutti confusi, spaventati, inorriditi da ciò che stava avvenendo nel mondo. Viaggiare è diventato diverso, inevitabilmente il pensiero va alle persone che stanno soffrendo, che stanno lottando fra la vita e la morte, alle persone in difficoltà.

Ero di nuovo a Canggu in una delle tante Eco Surf & Yoga House, un luogo ideale dove trascorrere qualche settimana. Si incontrano persone con stile di vita simile al tuo e spesso si hanno gli stessi interessi. Simangia insieme, facendo svariate attività, scambiandosi libri, rispettando gli spazi dell’altro.

La struttura era gestita da un gruppo di persone locali, le quali si occupavano principalmente della pulizia delle aree comuni e della cucina. Ogni giorno preparavano la colazione, rigorosamente a base di prodotti naturali quindi frutta esotica, latte di cocco, avena, cereali, burro di arachidi e tanto Jamu, un succo antichissimo indonesiano di curcuma, zenzero e tamarindo, toccasana per il sistema immunitario.

Una mattina come tante altre mi sveglio, vado in cucina pronta per bere litri di Jamu e non trovo più nulla: niente cibo né bevande. Disorientata, chiedo informazioni ad altre persone le quali confermano il mio timore: lockdown. Bali ha ufficialmente annunciato la chiusura di tutte le attività commerciali. Ci siamo così ritrovati in una trentina di persone bloccate in questa Eco Surf & Yoga House, il posto era stupendo ma non eravamo pronti per quella chiusura. Non c’era stata comunicazione previa e siamo rimasti senza viveri, bloccati per due giorni, lontano da supermercati.

Abbiamo cercato di razionare gli alimenti rimanenti dai giorni precedenti ed è stato un ottimo esperimento sociale. Devo ammettere che istintivamente ho tenuto in borsa il pacchetto di mandorle che viaggia sempre con me poi, grazie al senso di comunità creatosi, ho condiviso con gli altri anche quello. La generosità produce generosità, le buone azioni creano armonia. Ricordo la conversazione che ebbi in un tempio indiano con un Sadhu quando, di fronte al mio affetto per la popolazione indiana, mi disse “people are good to you because you’re good to them. If you’re not good they won’t be good”.

Dopo quei due di giorni in quarantena a Bali, i proprietari della struttura sono tornati a distribuire cibo, preparando succhi e colazione, accogliendo nuovi viaggiatori in cerca di una sistemazione, infrangendo quindi ogni norma in vigore. In quel momentoho capitoquanto l’esplosione del Covid 19 sarebbe stata catastrofica in certi paesi del mondo dato che non c’è abbastanza informazione o educazione al riguardo. Le persone indossano la mascherina senza realmente essere consapevoli del perché lo fanno, prendendolo come un gioco.

Quell’innocenza, seppur affascinante, è estremamente pericolosa. Mi sono infatti ritrovata in varie situazioni bizzarre. Un giorno passeggiavo in spiaggia ed un tizio con la mascherina si avvicina con la mano alzata dicendomi “Dammi un cinque!”. Gli spiego che non si può e lui spontaneamente risponde “Tranquilla, non ho la febbre io. Sono sano!” . E via a spiegargli che il problema non era lui e tutta la tiritera che già conosciamo.

L’aggravarsi di questa condizionein tutto il mondo ha fatto si che io sentissi un richiamo, ho pensato che era il momento di tornare. Viaggiare è diverso, non c’è più la libertà di sempre.

Si, la libertà. Quella sensazione di leggerezza che ricarica le batterie, la scoperta dell’ignoto, l’assenza di programmi, di limiti, il piacere della sorpresa. Viaggiare per abbandonarsi. Non riuscirei mai a partecipare ad un viaggio organizzato. Sicuramente conoscerei luoghi meravigliosi, persone nuove ma non proverei quel brivido costante che caratterizza il viaggio all’avventura.

Io credo che viaggiare, soprattutto quando lo si fa da soli, sia la massima espressività di indipendenza e collettività. Termini opposti ma complementari, il viaggio li congiunge. In quei momenti si è infatti estremamente aperti all’incontro con l’altro, ci si ritrova a condividere piccoli spazi di quotidianità, non si è mai realmente da soli ed è un’esplorazione continua. Si conoscono modi di vivere differenti, ci si adatta a persone di altre culture e ci si accorge che ciò che per noi è scontato e normale lo è solo all’interno dei nostri schemi mentali poiché la realtà è un’altra, o meglio, sono altre. Diventa un viaggio all’interno del viaggio.

Il termine viaggio viene dal latino viaticus, significa “ciò che riguarda la via” , il suo neutro è viaticumed indica ciò che il viaggiatore portava con sé per sopravvivere durante il cammino. Il sostantivo viaggio può essere inteso anche nella sua accezione figurataquindi come superamento di ostacoli quali la paura, la solitudine e di tutte le avversità che possono incontrarsi durante il cammino, inclusi i propri limiti.

Uno degli archetipi di viaggio più noti è sicuramente il mito di Ulisse. Nel racconto di Omerovediamo realizzarsi il viaggio proprio nella suo significato primordiale “ciò che riguarda la via”. I momenti importanti delle vicende di Ulisse accadono infatti nel percorso, non nel raggiungimento della meta. Trasponendo le avventure di Ulisse alla contemporaneità, penso ai mezzi di trasporto, quindi agli aerei, autobus, treni. Al tragitto. Ogni volta che attendo l’imbarco sento una forte energia, sono felice. Non importa dove mi porterà quel mezzo di trasporto, può essere l’inizio di un viaggio o il ritorno da un lungo viaggio: è l’esperienza del movimento a regalarmi quell’euforia così potente. Sono la classica persona che durante il decollo o l’atterraggio rimane incollata al finestrino, voglio guardare fuori e gustarmi proprio quel movimento.

Ricordo il primo aereo che presi per andare in Tunisia con i miei genitori, quando mio padre mi spiegò come e quando il pilota estrae il carrello, attiva le luci, apre gli spoiler per ridurre la portanza delle ali. A me sembrava magia. Tuttora, a distanza di più di vent’anni, sento la stessa magia. Non ho una buona memoria ma mai potrò scordare il senso di libertà e spensieratezza che provai quando partii per l’Australia, il mio primo grande viaggio da sola. Stavo ascoltando Stop me if you think you’ve heard this one before degli Smiths ed alzai i piedi dal suolo per sentire la sospensione accentuata. Come una vera invasata, si.

Il viaggio di Ulisse si compie vagando nel mare, naufragando. Ed è proprio questo perdersi che costituisce l’inizio delle sue peripezie, delle avventure che sono diventate l’emblema del viaggio stesso. Il naufragio diventa motore del viaggio di Ulisse, ciò che gli farà prima perdere i punti di riferimento e gli donerà poi la meraviglia dello stupore.

Il viaggio di Ulisse non è un’avventura desiderata ma è un angosciante travaglio in un mondo sconosciuto. Eglisi ritrova ad affrontare numerosi ostacoli: combatte mostri, il gigante Polifemo e la terribile Maga Circe. Senza difficoltà il suo viaggio (naufragio) non sarebbe esistito. Sono infatti quelle esperienze a costituire il viaggio.

Allo stesso tempo l’avventuradi Ulisse ha una meta ben precisa: Itaca. Il ritorno alla terra d’origine è la costante che permette all’eroe di combattere, di perdersi per ritrovarsi. Il viaggio narrato da Omero ha come unico scopo il ritorno a casa. Si può dire che senza Itaca lo stesso viaggio non sarebbe esistito.

Quando partii da Barcellona diretta a Nuova Delhi non avevo chiaro l’itinerario che avrei percorso nei mesi successivi proprio perché non volevo imprigionarmi in progetti prestabiliti. L’unica certezza che avevo era il corso di formazione che avrei svolto in Rishikesh ed il volontariato in Nepal. Il resto era un’incognita. Forse rientro in Europa, forse continuo a viaggiare. Chi lo sa. Al termine di quelle esperienze tutto è poi successo naturalmente, nel modo migliore.

L’unica costante che ho avuto durante tutti questi mesi è stata lo yoga, facendosi filo conduttore del mio viaggio. Sono partita per formarmi, praticare l’insegnamento e migliorare la mia pratica. Grazie a questo fine ho potuto realizzare il viaggio (il fine giustifica il mezzo!).

Abbiamo bisogno di un sentiero per non perderci. Ed il sentiero è unico per ognuno di noi, non è ripetibile, è un’esperienza interiore. Il viaggio diventa così conoscenza di sé. L’assenza di un itinerario predeterminato permette di tracciare il nostro viaggio, quello che più si adatta alle necessità dell’individuo. Non è necessario andare dall’altra parte del mondo per compiere questo percorso, il viaggio può realizzarsi anche all’interno delle mura di casa, dipendendo dalle esigenze, non dalle possibilità poiché è il desiderio a creare la condizione per realizzare l’esigenza. In questa logica tutti abbiamo la possibilità di compiere il viaggio.

Ma come si fa a viaggiare stando a casa? Beh, è sicuramente un viaggio diverso, è un viaggio interiore. Tornando alla letteratura, nelUlisse Joyce rovescia il mito di Omero adattandolo ai tempi moderni in chiave anti- eroica: il protagonista Leopold Bloom rappresenta infatti un uomo comune con inquietudini e debolezze. I parallelismi con l’Odissea sono costanti ed i personaggi e gli eventi sono organizzati in riferimento al modello eroico di Omero.

Il tema del viaggio diventa metafora del viaggio interiore, i protagonisti si esprimono attraverso la tecnica del flusso di coscienza, quindi l’immediata trasmissione delle sensazioni dell’io, con procedimenti illogici appartenenti all’inconscio. Questi dialoghi proprio perché considerati illogici sono reali e permettono ai personaggi di esprimere la propria interiorità senza subire influenze esteriori. Così, il flusso di coscienza diventa il modo in cui percorrono il proprio pellegrinaggio. Un movimento in nome della ricerca del sé.

Possiamo avere bisogno di movimento fisico o movimento interiore. Una regola non esiste. Ed è questo il potere del viaggio: quando accettiamo la possibilità di naufragare impariamoa nuotare nelle acque sconosciute, proprio in quel flusso che un giorno o l’altro ci riporterà a casa.

Il mio viaggio è cominciato quando ho capito il significato dello yoga, non quando sono salita sull’aereo. In quel periodo provavo una sorta di disgusto verso la mente, quella che proietta, che crea aspettative, che ragiona e che pensa. Quella che crea delusioni intossicando l’animo. La mente che proietta è insana e ti impedisce di vedere la realtà così com’è. Prendendo consapevolezza di ciò tutto diventa più semplice, ingiustificato ma facile da assimilare. Accettando il fatto che la nostra esistenza è senza un significato preciso, che possiamo assegnarle quindi lo scopo che preferiamo senza attingere a copioni scritti da qualcun altro il futuro scompare e ci si sintonizza con il presente, vivendo la realtà. Quella vera, senza l’intermediazione della mente.

È importante avere chiaro che essere centrati sul momento presente va oltre la filosofia del carpe diem, è necessario mantenere infatti una certa regolarità. Senza disciplina si rimane schiavi degli istinti illudendosi di essere liberi. Quando ci si lascia governare dagli istinti (rabbia, paura, passione ecc.) è come essere comandati da un padrone. Quella non è libertà. La disciplina è la chiave per rompere quelle catene e diventare governanti di noi stessi.

Lo yoga è così importante proprio perché è un approccio esistenziale che mantiene corpo e mente lucidi e connessi. Non è una religione, non è un dogma, per questo può risultare antipatico all’inizio. È uno stile di vita. Grazie a questa disciplina si può arrivare a cambiare punti di vista creando qualcosa di nuovo che permette di entrare in contatto con la realtà.

Nel mio caso è stato fondamentale mantenere una pratica regolare durante tutto il viaggio. Non è stato facile, quando si viaggia si hanno orari sempre diversi, alimentazione sfasata e spesso è difficile trovare un luogo dove stendere il tappetino. Superati quei piccoli inconvenienti il risultato di una pratica quotidiana apporta benefici straordinari, aiutandoti ad apprezzare ancor di più ciò che avviene attorno a te. Si è bombardati da tantissimi stimoli come odori o rumori e si è sottoposti a continui sforzi di adattamento. Nella sua bellezza viaggiare assorbe tante energie per questo urge ricaricare le batterie. Credo che lo yoga sia un viaggio in sé, unendo il movimento fisico a quello interiore. Questo non significa ricercare sé stessi, come erroneamente spesso si intende, quanto piuttosto rimanere consapevoli e presenti.

Ma in tutto ciò che mi è successo a Bali? Ho deciso di comprare un biglietto di rientro approfittando dell’apertura di alcune tratte su Roma. Ho così intrapreso il viaggio, quello più difficile dall’inizio di questa avventura. È stata un’esperienza surreale.

Arrivo in aeroporto a Bali e rimango interdetta. Delle distanze di sicurezza neanche l’ombra, eravamo tutti ammassati in fila per il check – in. Indossavo la mascherina ma non tutti ce l’avevano. Sono entrata così in un vortice di paranoia, disinfettandomi le mani ogni dieci minuti, disinfettando passaporto e telefono ad ogni controllo. Salgo sull’aereo e lo sgomento aumenta. Sembra un volo normale, nessuna norma viene rispettata. Inutile dire come ad ogni colpo di tosse degli altri aumentava il senso di paranoia. Cambio tre aerei e nel giro di più di ventiquattro ore arrivo finalmente a Parigi.

Credevo che il rientro in Europa mi avrebbe fatto sentire al sicuro ed invece la sensazione è stata di totale smarrimento. Non avevo vestiti invernali, ho viaggiato avvolta nella coperta della compagnia aerea. L’intenzione era comprare una felpa a Parigi ma non avevo considerato che sarebbe stato tutto chiuso. Tutto. L’aeroporto Charles de Gaulle sembrava abbandonato, era vuoto, silenzioso, freddo. Oltre a poche persone in transito come me era popolato da senza tetto che dormivano per terra. L’aeroporto di Nuova Delhi era decisamente più accogliente. In quel momento mi è venuto da piangere, ho sentito un enorme dispiacere. “Siamo in guerra” ho pensato.

Qual è la differenza in fondo?

Finalmente riparto, prendo l’ultimo aereo diretta a Roma. Conosco persone sull’aereo, tutta gente come me che per un motivo o per l’altro stava rimpatriando. Inizio a sentire le vibrazioni dell’Italia. Non solo la lingua ma anche i modi di camminare, di gesticolare, di porsi. Penso che la meta è vicina. Passo non so quanti altri controlli di sicurezza, di febbre, di domande quali “Dove sei diretta? Da dove vieni?” e finalmente mi imbarco. Crollo in un sonno profondo e mi sveglia il suono delle ruote dell’aereo sull’asfalto. Sono ancora stordita come se fosse trascorso un tempo indefinito. Poi mi sveglio: sono a Roma!

Pensavo che a quel punto sarebbe stato tutto in discesa, non immaginavo che la parte più angosciante doveva ancora arrivare. Era tardo pomeriggio, non c’erano treni utili sui quali io potessi salire. Nessuno poteva venirmi a prendere in stazione. Non potevo avere contatti con nessuno quindi neanche appoggiarmi a casa di amici. Persone conosciute in aereo si erano offerte di accompagnarmi ma è proibito dalla legge poiché non apparteniamo allo stesso nucleo familiare.

Ho dovuto prendere un taxi. Un mezzo rapido e indolore? Magari! Salgo in macchina stravolta, ormai le ventiquattro ore di viaggio sfioravano le trentaquattro. Non mi addormento. Il taxista, un personaggio a dir poco stravagante, inizia a parlare, parlare e parlare (flusso di coscienza?) fino a quando la macchina si ferma nel bel mezzo della E45. Rimaniamo bloccati. La strada era deserta ma era comunque pericoloso essere lì, in una super strada. Iniziava anche ad imbrunire. Nonostante i problemi con la batteria dell’automobile il conducente riesce a farla ripartire e riprende il suo monologo. Io ero stufa di ascoltare quel parlare, tanto più che non mi sentivo più al sicuro. Era quasi buio, iniziava il lungo tratto con le gallerie, se la macchina si fosse fermata ancora sarebbe stato molto pericoloso. Rimango calma (santa respirazione!) e gli dico gentilmente di concentrarsi sulla guida. Gli ricordo che sono in viaggio da due giorni e che la mia priorità è la sicurezza. “Non preoccuparti, è tutto sotto controllo”. E fu così che la macchina si ferma ancora. Questa volta vicino ad un’area di sosta.

Che fare? I miei nervi sono stati messi a dura prova ed oggi, con un po’ di fierezza, posso dire di esser stata abbastanza forte ed evitare l’attacco di panico. Ho pensato alla mia amica Alessandra, quando ad ogni difficoltà mi ricordava “Giuly, hai tutti gli strumenti per superare questo momento”. Quelle parole sono state d’aiuto.

Iniziavo ad essere preoccupata. Ero nel mezzo del nulla, con uno sconosciuto. Poteva fare qualsiasi cosa ed ero letteralmente sola e disarmata. Il mio telefono si spegne, era scarico e non potevo caricarlo in macchina poiché il problema stava proprio nella batteria. Così, sempre cordialmente, gli chiedo il suo. Volevo avvisare mia madre. Il taxista mi presta il telefono, compongo il numero di mia madre ma non c’è segnale. Cammino, mi sposto, inizio ad essere offuscata da pensieri negativi. Ho mal di pancia. Finalmente riesco a condividere attraverso WhatsApp la mia posizione ed a chiamare un altro taxi. Sarebbe arrivato dopo due ore.

Ho sentito tutte le sensazioni possibili percorrermi il corpo. Il taxista era alterato e continuava a fumare una sigaretta dietro l’altra. Ho cercato di evitare ogni minima interazione, non sarebbe stata d’aiuto. Mi sono seduta nel sedile posteriore avvolta nella coperta dell’aereo, cercando di addormentarmi, per non pensare. Ovviamente non ci sono riuscita.

Tremavo e mi sentivo male. Non solo per la situazione in sé ma per tutta l’ansia accumulata durante il viaggio: muoversi ai tempi del Covid 19 è stato estenuante. Era anche una situazione nuova per me, indossavo i guanti ma mi chiedevo se ogni piccolo gesto fosse corretto. Avevo paura di sbagliare. Andare in bagno, bere l’acqua della bottiglia, toccare lo zaino, parlare con le persone, con le assistenti di volo quindi prendere il vassoio che mi porgevano.. insomma tutto. Ho dovuto controllare ogni piccolo gesto. Per poi arrivare allo squallore di Parigi e, superato quello, ritrovarmi bloccata in una superstrada sola, senza poter comunicare.

Durante il mio viaggio in Oriente non mi è mai capitata una situazione simile. Ho preso tantissimi mezzi di trasporto, spesso molto fatiscenti ma non ho mai sentito una sensazione di insicurezza o sconforto. Mai. Probabilmente il mio mindset era differente, forse ero più tollerante e predisposta all’adattamento. Tuttavia le disavventure che si sono concatenate dall’aeroporto di Parigi a Cesenatico celano anche altro, non solo inconvenienza quanto tale.

Le coincidenze non esistono, Jung parlava di sincronicità. Secondo questo principio filosofico la casualità è il risultato del legame di eventi di natura diversa da quella casuale ed esige un principio interpretativo risultante di immagini inconsce che si presentano direttamente quindi con fatti concreti, o indirettamente simboleggiate alla coscienza come sogno, idea o presentimento. Nel caso del mio ritorno a casa si è presentata direttamente, con ostacoli concreti sul cammino. Non sono una terapeuta ma ho assegnato un significato a quegli eventi: ero sicuramente felice di tornare a casa ma una parte di me avrebbe voluto continuare a viaggiare. Proprio quella parte si è manifestata sotto forma di impedimenti, quindi situazioni che hanno ostacolato il mio rientro.

D’altronde tutti i ritorni a casa sono travagliati. Tornare è bello ma quando l’avventura vissuta è stata intensa e gratificante è molto difficile lasciarsi alle spalle quei momenti, trasformare quegli eventi in un ricordo. Anche Omero lo conferma. Quando conclude il viaggio Ulisse non ha ancora finito il suo cammino e dovrà compiere un percorso altrettanto arduo nella sua patria. Una volta risvegliatosi sulla riva di Itaca, stravolto dal viaggio, non trova infatti uno scenario incoraggiante: dovrà affrontare i Proci e tutti i cittadini che sono stati infedeli durante la sua assenza.

Ma non è forse così travagliata la maggior parte dei nostri ritorni? Lo possono essere fisicamente o emotivamente. Il corpo e la mente hanno bisogno di tempo per abituarsi a quel movimento. Sicuramente per ognuno di noi la valenza è differente, sta a noi attribuirgli un significato proprio perché, così come ogni viaggio è unico e irripetibile, anche ogni individuo lo è.

Sono passate due ore quando finalmente arriva a recuperarmi il secondo taxista. La tensione si scioglie. Mi porta a casa. Mia madre è fuori ad aspettarmi in lacrime dall’emozione e mi corre incontro con la mascherina per abbracciarmi. Ancora una volta mi sono mantenuta lucida e prontamente l’ho fermata “No! È meglio di no”. Il taxista incredulo si intromette confermando le mie parole “Signora è meglio evitare”.

Sono le dieci di sera e sono arrivata a casa. Mollo zaino, borsone, coperta e scarpe in garage. Salgo in casa. Mi faccio una doccia calda dopo mesi di docce fredde e mangio un piatto di pasta. Non potrò muovermi per i prossimi quindici giorni.

Bentornata a casa.