Nusa Lembongan

Mi sveglio e fa un gran caldo. Il ventilatore funziona, le pale girano ma non sembra esserci movimento d’aria. Sono sudata fradicia, passo una mano fra i capelli e li sento appiccicosi, senza forma. Non è un’immagine sexy ma purtroppo è la realtà. È tremendamente umido.

Guardo fuori dalla finestra ed è buio pesto. Che ore saranno? Prendo l’orologio e do un’occhiata: le quattro e mezza del mattino. E che ci faccio sveglia con gli occhi spalancati? Ah si ancora una volta loro, i galli.

Sono sveglia ancor prima che sorga il sole ed appena apro gli occhi ho una sensazione di smarrimento. Mi chiedo dove sono, in quale casa, in quale ostello e spesso mi domando in quale stato. È una sensazione stupenda.

Sei mesi in viaggio, sette nuovi timbri sul passaporto. Non ho tenuto il conto di quante città o paesini per non pensare ai letti cambiati, agli aerei, autobus, treni, barche, automobili, scooter, biciclette, tuc tuc, furgoncini e non so che altro.

Sfoglio le pagine di questo romanzo a ritroso, ripercorro le giornate, cerco di ricordarmi in quella situazione, cerco di pensare come passavo il tempo, con chi, come stavo.

Ho stilato una lista di tutte le persone conosciute durante questo viaggio meraviglioso scrivendo accanto al nome l’insegnamento ricevuto da ognuna di esse.
Di alcune ricordo il nome, di altre il volto, l’espressione, il sorriso o l’energia.

Prendo il cellulare e guardo le foto: osservo i colori dell’India, i paesaggi del Nepal, i monasteri del Bhutan, la frutta della Thailandia, la mia capanna in Cambogia, il Mekong in Laos ed ancora i templi della Thailandia.

Penso alle prime settimane in India quando dormivo con felpa e cappuccio perché non volevo appoggiare la testa su un letto che sembrava tutto fuorché pulito; penso a quando mi venne il classico febbrone e virus intestinale indiano e mi portarono all’ospedale dove non c’era neanche la carta igienica; penso a tutte le docce fredde fatte col secchio in Nepal quando la temperatura esterna si avvicinava allo zero; penso a quando in Thailandia ho fatto indigestione di Pad Thai perché era troppo buono per smettere di mangiare quei 300 grammi di noodles farciti; penso a quando in Cambogia non assumevo più nessun tipo di liquido dopo le sei del pomeriggio perché non volevo trovarmi nella condizione di attraversare la giungla di notte per andare in bagno; penso a quando, sempre in Cambogia, dormivo con le rane in camera, i gechi giganti ed a quando mi sono ritrovata l’iguana nel letto; penso ai viaggi notturni in Laos, a Don Det quando la sera non vi era alcun tipo di illuminazione per strada.

Continuo a pensare e sorrido perché sono felice. Vorrei tornare indietro e rivivere ogni momento di questa storia così travolgente ma allo stesso tempo sono curiosa di continuare a leggere il libro.

Mi guardo allo specchio e vedo il mio volto cambiato. Il giorno in cui partii da Barcellona mi feci scattare una foto da Giorgio. Fu così difficile per me staccarmi dall’attico di via Providencia, abituarmi all’idea che stavo passando la palla a qualcun altro.

Nella foto ho i capelli lisci raccolti, le spalle un po’ curve (indossavo lo zaino ma la schiena era affaticata di suo). Un’espressione rigida ed impostata: avevo paura. Di cosa? Di prendere il volo. Non con l’aereo ma con la mia vita.

“Dai, hai più di trent’anni ed ancora rincorri i sogni? È ora di tornare alla realtà (qual è la realtà?) è ora di fermarsi, sei in movimento da quando avevi diciannove anni. Finalmente hai una bella casa a Barcellona, un bel lavoro, cosa vuoi di più? Devi essere grata”. Non era mia madre a ripetere quelle parole e non erano neanche i miei amici. Ho avuto la fortuna di essere sempre stata appoggiata ed incoraggiata nelle mie decisioni. Quelle parole erano le mie. O meglio, erano le mie paure.

Siamo impregnati della bizzarra concezione che dobbiamo camminare spediti verso una meta prestabilita, senza farci tante domande. Si certo, mai dare nulla per scontato o scendere a lamentele futili ma neanche accontentarsi. E perché mai dovremmo farlo nell’era della comunicazione dove tutto è accessibile a tutti?

Ci troviamo di fronte ad un oceano stupendo che da lontano appare infinito, ignoto, pericoloso. Le correnti sono forti, difficile rimanere a galla. Questo mare tuttavia ci attrae, vorremmo sguazzarci dentro, sentire la salsedine sulla pelle e la sensazione di leggerezza che solo l’acqua marina riesce a donare al corpo.

Noi siamo lì, sulla battigia. Fantastichiamo pensando a dove potremmo arrivare se solo riuscissimo a tuffarci in quelle onde ma siamo troppo spaventati dalla loro potenza, dalla loro imprevedibilità per fare il passetto in più.

Per molte persone è sufficiente rimanere sedute e godersi lo spettacolo (beate loro). Altre invece soffrono, sentendosi impossibilitate, hanno bisogno di movimento per respirare, per non sentirsi soffocare.

Ci pensai e ci ripensai. Cercavo di pianificare, di progettare rimanendo con i piedi per terra senza però bloccarmi nell’immobilità. Sono rimasta nella battigia fino a quando successe qualcosa di inaspettato e lo feci.
Decisi di tuffarmi in mareil giorno in cui nauseata dalla situazione lavorativa incominciai a non fare più niente.

“Dai Giulia, un minimo di contegno, lavora! ” diceva la mia paura. Diamole un nome, chiamiamola Elinor, gli appassionati di Jane Austen sanno a chi mi riferisco.  Per coloro che invece non amano la letteratura ottocentesca lo spiego brevemente: Elinor è l’incarnazione della ragione in Ragione e sentimento. Abbiamo poi la sorella Marianne, personificazione della passione. Quest’ultima è quella che, tornando alla mia vita, non ce la faceva proprio a stare seduta di fronte a due computer ed un telefono,  continuava a gridare “Stai sprecando il tuo tempo! Non è questo il posto per te, scappa a gambe levate. Tu che sei cresciuta ascoltando Bob Marley, stai ingannando i tuoi stessi ideali”.  Anche Marianne esagerava, d’altronde non era ai lavori forzati e percepiva pure un ottimo stipendio.

Possibile che non ci sia una via di mezzo?

E così aspettai, accogliendo i segnali che un po’ alla volta si facevano sentire. Cercavo di mantenere la calma mentale quando fuori e dentro di me regnava il caos: Elinor e Marianne continuavano a litigare, facevano un gran rumore e mi provocavano forti mal di testa.

Tornavo a casa dall’ufficio, mi sedevo in terrazza e pensavo. Fantasticavo e progettavo la mia rivoluzione. Poi facevo Yoga. Tanto Yoga.

Questa disciplina mi aiutava a scaricare tutte quelle energie negative accumulate durante la giornata, a svuotare il bidone della spazzatura. Il giorno successivo veniva riempito con altri rifiuti ma la sera correvo a svuotarlo ancora. Una situazione provvisoria che mi permetteva di mantenere la lucidità, consentiva la convivenza delle due sorelle in attesa di tempi migliori.

Lo yoga permette infatti di sviluppare disciplina, forza e autocontrollo, coltivando  consapevolezza e rilassamento.

Spesso cerchiamo di fare ogni cosa all’istante, preferiamo cambiare strada piuttosto che avere pazienza, tendiamo ad arrenderci piuttosto che credere e camminare.

Mi viene in mente una fiaba buddista che narra il viaggio di Buddha con i suoi discepoli. Dopo aver attraversato vari territori un giorno videro un lago in lontananza e si fermarono per dissetarsi. Buddha chiese al discepolo più giovane di portargli dell’acqua da quel lago ed il discepolo camminò fino al lago, ma quando arrivò notò che un carro trainato da buoi era appena passato e l’acqua stava diventando torbida. Alla luce di questa situazione, il discepolo si rese conto di non poter portare al Buddha un’acqua così fangosa e tornò da lui a mani vuote.
Dopo circa mezz’ora, Buddha chiese di nuovo al discepolo di andare al lago e portargli dell’acqua da bere. Il discepolo acconsentì ma l’acqua era ancora torbida. Tornò e lo comunicò al Buddha: “L’acqua del lago è  imbevibile, sarebbe meglio raggiungere la città più vicina e chiedere agli abitanti che ci diano da bere”. Buddha non rispose e poco dopo chiese nuovamente al giovane di recarsi, per la terza volta, al lago. Il discepolo si incamminò ma dentro di se era furioso perché non riusciva a comprendere l’insistenza di un uomo così saggio.
Questa volta giunto sulla riva rimase stupito:  l’acqua era trasparente e pulita. Riempì le borracce di pelle e portò da bere al suo maestro e ai compagni della carovana.
Una volta al cospetto di Buddha, questi gli domandò: “Che cosa hai fatto per pulire l’acqua?”. Il discepolo smarrito non capì la domanda. Allora il maestro lo guardò e spiegò: “Hai aspettato. In questo modo, il fango si è depositato da solo e ora possiamo bere dell’acqua pulita. Anche la tua mente funziona allo stesso modo. Quando è disturbata, devi solo lasciarla stare. Dalle un po’ di tempo. Sii paziente. Troverai l’equilibrio da solo”.

Grazie allo yoga ho trasposto questa favola alla vita reale applicando i suoi insegnamenti ad ogni piccola situazione. Lo yoga fornisce infatti tutti gli strumenti per sconfiggere la tensione nervosa, infondendo un senso di calma.

Quando iniziai a praticare yoga ero più rigida di un palo di cemento. Durante le lezioni mi sentivo frustrata poiché non riuscivo a mantenere nessuna posizione. Il confronto non dovrebbe mai farsi ma inevitabilmente guardavo le persone attorno a me e mi demoralizzava vedere come loro sembravano dei contorsionisti del circo ed io un pezzo di legno. Nonostante ciò il giorno successivo tornavo sul tappetino e praticavo.

Grazie a perseveranza e pazienza gradualmente mi sono sciolta non solo fisicamente ma anche mentalmente. Ho iniziato ad accogliere quegli stati di frustrazione e ad accettarli anzi che combatterli. Mi sono resa conto che è inutile arrivare a toccare le dita dei piedi con le mani se curviamo la colonna vertebrale. È meglio piegare le ginocchia e distenderle un po’ alla volta mantenendo la colonna eretta. Col tempo arriveremo a toccare il suolo.

È necessario scalare la montagna prima di godere della vista, la salita non è facile, ma un po’ alla volta è possibile arrivare in cima. Lassù tutto risulterà più nitido e chiaro.

Così portavo Elinor e Marianne a lezione di yoga in modo tale da tenerle tranquille. La loro rivoluzione sarebbe gradualmente avvenuta.

Jane Austen narra di quando un giorno Marianne viene a conoscenza di verità scomode circa il suo amato, cadendo in una grave crisi. Proprio lei che aveva sempre creduto in quell’amore così strampalato ed impossibile si ritrova a dover fronteggiare la dura realtà dei fatti. Si ammala e viene ricoverata.

Anche Elinor rimane profondamente delusa quando scopre che l’uomo al quale era affezionata, così socialmente adatto al ruolo di marito, ha giurato fedeltà ad un’altra donna.

Che succede alle due sorelle? Marianne apprende che non si può vivere di sola passione, certe volte è necessario mitigare i sentimenti con la razionalità; Elinor impara invece che ciò che logicamente sembra perfetto spesso lo è solo in superficie.

Jane Austen ci presenta la complementarietà celata dalla diversità. Attraversando varie peripezie ed un percorso che sembra per nulla lineare, le due sorelle riusciranno comunque ad arrivare alla vetta più importante per gli standard dell’epoca: il matrimonio. Ognuna placando l’altra, trovando la passione nella ragione ed il senno nel sentimento. In questo modo, modellandosi, accettandosi, scoprendosi ed aprendosi all’ignoto arrivano al loro traguardo. Riescono a tuffarsi in mare. Dove andranno non lo sanno, il viaggio è appena cominciato.

Hanno superato la paura, il blocco che impediva loro di guardare nella giusta direzione. Hanno iniziato a parlarsi, a comunicare. Sono rimaste fedeli alla loro integrità senza chiudersi in preconcetti dettati dalla testardaggine.

Sarà un matrimonio felice? Questo la scrittrice non ce l’ha raccontato. Il finale non lo possiamo sapere così come ora io non posso pianificare il mio futuro.

Mi chiedo dove sarò fra sei mesi, cosa farò fra un anno. Vorrei certezze ma allo stesso tempo so che è solo la voce di Elinor a desiderare delle risposte. Marianne continua a ricordarle che è più genuino e logico vivere senza pretendere di controllare la stesura di questo libro. È la prospettiva a scrivere il finale del nostro romanzo.

La bellezza della vita risiede proprio nella sua imprevedibilità e l’evoluzione dell’essere umano è data dalle sue paure. Quando tutto è sotto controllo, programmato, uguale, prevedibile allora significa che è stagnante e, come insegna la fiaba buddista, nessuno vuole bere dell’acqua sporca.

Oggi riesco a convivere con le discussioni delle due sorelle molto meglio di quanto non faccia con il canto dei galli.

Sono a Nusa Lembongan, un’isoletta a sud di Bali. Continuo a portare Elinor e Marianne a lezione di Yoga tutte le mattine. Quando bisticciano ricordo loro come un anno fa erano in bilico, dovevano scegliere se farsi licenziare o lottare per proteggere una vita stabile e noiosa.

Così si calmano e riportano l’attenzione al momento presente.

Nel frattempo si sono fatte le sei, è ora di alzarsi, farsi la doccia e  andare a guardare l’alba in spiaggia.

Mi sveglio lentamente bevendo l’acqua di cocco che è fresca, pulita e dissetante.

Tuttavia la mente continua ad essere tormentata, il mio dilemma più grande ora è un altro. Devo scegliere se provare a surfare o fare snorkeling. Marianne vuole surfare, Elinor vota per lo snorkeling.

Cosa faccio? Difficile scegliere.

Vi abbraccio dall’Indonesia.

“Devi perseverare in ciò che hai sempre desiderato. Non desistere mai ai tuoi sogni. Per arrivare al tesoro devi seguire i segnali”

Paolo Coelho L’ Alchimista