Laos

“Torna in Cambogia se non vuoi pagare”. Questo è stato il benvenuto in Laos. Un viaggio durato più di dodici ore in autobus, in quattro autobus diversi.

Sono partita da Siem Reap in un pulmino con altre sei persone ed abbiamo percorso la strada direzione nord. Durante il tragitto abbiamo fatto varie soste per caricare e scaricare sacchi puzzolenti pieni di non so cosa che continuavano ad appesantire il pullman. Poi ci hanno fatto scendere, aspettare sotto al sole cocente e cambiare pulmino. La storia si è ripetuta tre volte, fino ad arrivare alla frontiera del Laos.

Finalmente al confine, carichiamo gli zaini in spalla ed attraversiamo a piedi. Era già tardo pomeriggio quindi buio pesto. Arrivati alla dogana, non c’erano altri turisti, solo due funzionari laotiani che pur non parlando inglese sono riusciti a chiederci di pagare una tassa palesemente abusiva. Nessuno voleva farlo, così si sono messi a discutere. Una ragazza inglese è esplosa in una scenata di rabbia, probabilmente era stanca (spero) e si è messa ad urlare “I’m not gonna pay more fucking money! “. Uno sfogo isterico, si trattava solo di qualche dollaro, niente di più.

Ci hanno lasciati lì, l’autobus non è più venuto a riprenderci e ci siamo ritrovati all’entrata del Laos di notte e soli, nessuno aveva una scheda laotiana quindi non potevamo chiamare alberghi o taxi. Attorno a noi solo alberi e asfalto.

Abbiamo scoperto poi che era tutto pianificato dalla stessa compagnia di trasporto: un altro autobus è infatti magicamente comparso dopo circa un’ora di attesa chiedendoci un’ulteriore tassa per portarci fino al Mekong dove avremmo dovuto prendere un traghetto e con questo arrivare a destinazione.

La ragazza inglese continuava a sbraitare non rendendosi conto che non avrebbe cambiato nulla.

Siamo così montati sul quarto autobus ed arrivati al Mekong. Un’emozione a dir poco intensa: ho finalmente visto con i miei occhi quel fiume imponente spesso descritto nei libri di Tiziano Terzani che tanto mi hanno accompagnata, ispirata e motivata negli anni.

Ed ancora sorpresa, non c’era nessun traghetto! Siamo saliti su una barchetta sgangherata di legno e senza luci, il conducente aveva una piccola torcia piantata in fronte ed attorno a noi solo il nero della notte. Le stelle sul Mekong sono grandi, sono tante e sono luminose. Difficile non sentirsi in pace. A quel punto anche l’inglese si è calmata.

E fu così che sono sbarcata a Don Det, un’isola di circa sette chilometri di estensione dove non esistono macchine, solo biciclette, qualche scooter e tanti animali. Silenzio.

Nell’isola non c’è illuminazione, solo la luce di qualche ristorante o bar. È l’isola degli happy menus, degli Hippies, del relax. Ero intenzionata a stare tre notti, ne sono passate già dodici.

Il secondo giorno ho noleggiato una bicicletta ed ho iniziato ad esplorare i dintorni. Per pura casualità mi sono fermata a bere un frullato di mango in un bar/ostello, musica reggae, amache, tavolini bassi appoggiati su enormi tappeti colorati, puff ed una grande terrazza affacciata sul Mekong. Come cantano i Talking Heads, ho pensato This must be the place così mi sono buttata, non nel fiume ma nel “prova non hai nulla da perdere”. Ho chiesto se potevano lasciarmi la terrazza ogni mattina per dare lezione di Yoga. La risposta è stata affermativa. Si, ho un nuovo lavoro!

Ogni giorno faccio colazione lì (qui, ora sto scrivendo di fronte al mio bowl di frutta e yogurt) e parlo con le persone, invitandole alle mie lezioni. Ho creato la formula Donation, alla fine della lezione mi pagano quello che vogliono e se vogliono. In questo modo vado incontro ai backpackers ed allo stesso tempo continuo a fare esperienza che è la priorità in questo momento della mia vita, più che guadagnare.

Sto conoscendo un sacco di persone, con alcuni rimaniamo in contatto con altri no.
In questo modo devo fare marketing a me stessa, finalmente metto in pratica regole applicate per terzi durante anni, facendo un lavoro che mi sono accorta di amare. Non mi pesa mai dare lezione, al contrario mi dona energia.

E il resto della giornata cosa faccio? “Ma non ti sei stufata due settimane nell’isola? Non ti annoi? ” Raga, non sono mai stata meglio! Il solo pensiero di andarmene mi angoscia.
Fare, fare, fare. Questo è il problema. Non sappiamo più stare.

All’inizio della lezione di Yoga c’è sempre un momento di meditazione e spesso posso percepire le persone in frenesia, vogliono muoversi e fare, essere produttivi. Così siamo abituati a pensare.

Anche io sentivo la stessa cosa. A Barcellona frequentavo solo le lezioni degli insegnanti che mi facevano sudare, volevo sempre una specie di work out ed ero allergica a Pranayama e meditazione. Tutt’ora mi piacciono gli allenamenti intensi ma ho imparato a godermi anche il non fare.

Shavasana,  dal sanscrito shava cadavere e asana posizione, letteralmente posizione del cadavere, è un must alla fine della pratica. È la posizione del rilassamento profondo di corpo e mente che ci permette di realizzare uno stato di meditazione quindi percepire il corpo energetico, creando così una condizione di benessere.

È l’asana più impegnativa da eseguire, poiché il rilassamento non è un’azione che può essere controllata così come siamo illusoriamente abituati a fare con la nostra vita quotidiana. Al contrario,  è uno stato di resa, consegnando il corpo alla terra sentendone tutta la sua pesantezza, lasciando andare le tensioni. Riuscire ad arrivare a questo stato di meditazione profonda implica la capacità di raggiungere un equilibrio psico-emotivo elevato, di accettazione.

Tornando alla domanda “cosa faccio nell’isola” la mia risposta è non faccio. Vivo in un costante stato di Shavasana: dopo la lezione di Yoga faccio colazione e parlo con le persone, anche se onestamente non sempre ne ho voglia; rimango seduta sul divanetto della colazione a leggere e scrivere; poi attraverso i campi accarezzo due mucche  e torno al mio bungalow che, confronto a quello dove vivevo in Cambogia, è un gran lusso. Mi rilasso sull’amaca per ore a leggere e poi faccio il bagno nel Mekong, a volte nuoto, altre no; dopo essermi asciugata pratico Yoga su un pontile. È ora di cena, gli happy menus non mi interessano ma il cibo si. E la giornata è già finita! Torno a casa e c’è il cane ad aspettarmi, lì seduto fuori. Gli (le) ho dato un nome: Matilde. Poi arrivano anche i gattini, ingelositi dal cane. Spesso il wifi non funziona e sono felice quando non va.

La mattina mi sveglia il gallo e mentre cammino per andare a lavoro incontro la solita famiglia di maialini che circolano liberi, incontro decine di pulcini, galline, anatre ed oche.

Vedo le persone che aprono alimentari a conduzione familiare che sono allo stesso tempo le case dove vivono, con i bambini che spazzano ed i genitori che sistemano gli scaffali.

Conosco tutti ormai. Mi chiedono se vivo qui, mi chiedono quanto rimarrò ed io rispondo con le tre parole che più mi caricano dall’inizio di questo viaggio: non lo so.

Mentre ero in India ho letto diversi libri di Alan Watts, uno dei principali liberi pensatori inglesi, uno dei primi ad introdurre e spiegare il pensiero orientale in occidente. Fece innumerevoli esperienze in oriente, studi di filosofia orientale, Buddhismo, Zen, Taoismo. Frequentava personalità come Carl Gustav Jung ed approfondì nuove tesi sulla psicologia moderna fino a convertirsi al Buddismo.

Nel libro La via dello Zen, Alan Watts parla proprio del non fare spiegando come la meditazione seduta non è, come spesso si suppone, una pratica eseguita per un fine ulteriore. Dal punto di vista buddhista, è solo il modo giusto di sedere, e appare del tutto naturale rimanere seduti senza fare .

All’irrequieto temperamento occidentale la meditazione seduta può sembrare una tortura perché apparentemente inutile, senza scopo o fine ultimo. Ci consideriamo incapaci di sedere “solo per sedere”, senza scrupoli di coscienza, senza sentire che dovremmo fare qualcosa di più importante per giustificare la nostra esistenza.

Ed invece la svolta sta proprio lì, accettare che la nostra esistenza un fine ultimo non ha, l’unico significato possibile è quello che noi scegliamo di assegnarle e non necessariamente deve essere una missione ambiziosa ed esigente. Accettare questa cruda realtà ci permetterà di raggiungere uno stato Zen, una condizione di resa alla vita stessa.

Saremo in grado di liberarci di molte ansie ed angosce, di quella cosa diventata così comunemente diffusa ed accettata chiamata stress. Saremo in grado di stare seduti senza dover per forza avere un cellulare in mano, senza dover parlare, senza dover avere un programma per la giornata, per la settimana, per il mese e, nei casi più patologici, un obiettivo per il nuovo anno. Non andremo su tutte le furie quando alla dogana ci forzano a pagare qualche dollaro per entrare in un nuovo paese.

Lo Zen non è una dottrina né una filosofia, non vi è nulla da credere. È un modo di vivere, un modo d’essere, Watts lo spiega con la metafora del pesce-realtà:

“Voi sapete bene che, quando vi calate in acqua, non c’é nulla cui aggrapparsi. Bene, tutto quest’universo è come acqua: fluido, transeunte, mutevole. Che succede se all’improvviso vi trovate in acqua dopo esservi abituati a vivere sulla terraferma e non siete avvezzi all’idea di dover nuotare? Cercate di star in piedi, d’aggrapparvi all’acqua e quel che succede se agite in questo modo è che annegate.
L’unico modo per sopravvivere in acqua — e questo si riferisce in particolar modo alle acque della moderna confusione filosofica in cui Dio è morto, le proposizioni metafisiche sono divenute senza significato e non c’é veramente nulla cui aggrapparsi, perché tutti andiamo letteralmente a pezzi — dunque l’unico modo di sopravvivere in queste circostanze è di imparare a nuotare. E per nuotare avete bisogno di rilassarvi, di lasciarvi andare, di abbandonarvi con fiducia all’acqua respirando nel modo giusto. E allora scoprite che l’acqua vi sostiene. A dir il vero, in un certo qual modo, dovete diventare acqua voi stessi.”

Shavasana, resa, non fare, non lo so, Zen, accettazione. Chiamatelo come volete il risultato non cambia. Ci crediamo tanto saccenti, investiamo migliaia di Euro in istruzione, viaggi, esperienze, attività. Ma non siamo in grado di stare seduti. Ci rilassiamo solo nella poltrona dello psicoanalista, con la massaggiatrice o con le droghe. A pagamento.

Allora penso che avremmo bisogno di una rieducazione, imparare a stare, a goderci quella cosa che tanto rappresenta il nostro paese all’estero: il dolce far niente. È proprio vero che i luoghi comuni sono distanti anni luce dalla realtà.

Nel mio caso, lo stare seduta mi ha condotta a svolgere il lavoro dei miei sogni in un posto per me fantastico. Insegnare in Cambogia e poi in Laos subito dopo aver completato la mia formazione in India va ben oltre le fantasie che avevo prima di partire. E questa è la magia dello scorrere. Mi sono affidata agli eventi, mantenendomi lucida e senza mai perdere la concentrazione, senza mai dimenticare il significato che avevo assegnato a questo viaggio (significato, non obiettivo). E lo stare mi ha condotta qui. Non potrà essere per sempre ma intanto lo è adesso.

A fronte di queste considerazioni continuo a pensare che in fondo non lo so. Mi piacerebbe fornire soluzioni, consigli, direttive per affrontare la vita in modo Zen. Ma la verità è che effettivamente non lo so.

Solo di una cosa sono sicura: compratevi un’amaca. È più comoda, economica e simpatica di psicoanalista, massaggi e droghe. L’amaca è stata la mia vera svolta!

Buon riposo e buon relax cari lettori.