Sono passati quasi due mesi. Durante la quarantena ho trascorso molto tempo in terrazza a leggere al sole, guardando alberi e cielo. Viaggiavo con la mente, fra ricordi e progetti. Mi è mancato il movimento, quello vero. Passeggiare, correre, viaggiare. Quando le gabbie sono state riaperte la prima cosa che ho fatto è stata un giro in bicicletta. Volevo quel senso di leggerezza, aria sul viso e capelli al vento.
Quando sono entrata in garage per prendere la bicicletta ho visto il mio zaino da viaggio ancora lì, nella stessa sedia dove lo depositai la sera del mio rientro, dopo quel viaggio di ritorno tanto lungo e travagliato.
Non ho ancora avuto il coraggio di disfarlo. I primi quindici giorni ho usato la scusa della quarantena, d’altronde non potevo uscire dalla mia camera. Poi sono passati altri quindici giorni e poi quindici ancora. Niente, non ho ancora toccato il mio gioiello. Ho preso solo qualche bene di prima necessità, come le creme o il cioccolato balinese ed i souvenir da distribuire agli amici. Ho poi svuotato il sacchetto dei regali sul mio comodino, riponendo gli oggetti in modo chiaro ed ordinato.
Durante la mia quarantena ho passato ore ad osservare quei ricordi cercando di ritornare con il pensiero alla situazione esatta nella quale gli acquistai.
Sono così tornata a Jodpur, ai suoi negozianti tanto abili nel mostrare i tessuti, a raccontarne la provenienza, a descriverne le proprietà, a sfoggiarne l’eccellenza. Mi sono ricordata della mezza giornata passata a negoziare per un vestito lungo verde smeraldo: chiedevano 4000 Rupie e lo comprai per 800. Era un caldo intenso e le strade erano affollate da tuk- tuk, mucche, maiali e persone. Il rumore dei clacson era assordante e l’aria estremamente inquinata.
Ho ripensato ai mercanti di Pushkar, la città dei mercati, dove comprai sete, cotone ed una borsa ricamata a mano. Sono capitata a Pushkar durante la fiera del cammello. Pura casualità o forse no. Ogni anno migliaia di indiani della regione del Rajasthan si recano in città per assistere a questa manifestazione. Non solo turisti ma anche Sadhu, avvolti nelle loro tonache color zafferano; popolazioni seminomadi del deserto del Thar raggiungono Pushkar con le loro mandrie, impiegando giorni di cammino, per accamparsi in tende ed occuparsi della vendita degli animali; ed ovviamente migliaia di mucche, tori, pecore e cammelli con selle decorate. Durante la fiera del cammello la città è particolarmente colorata e rumorosa.
Nessuno cercò di comprarmi barattandomi con i cammelli, probabilmente perché ero sola. Ero sola in mezzo a tutte quelle persone. Tanti sguardi insistenti, curiosi ed indiscreti. Io mi sentivo sicura, come se fossi protetta da qualcosa di invisibile agli occhi. Passeggiavo e mi sono persa più volte fino a ritrovarmi nella strada dello street food più delizioso che abbia provato. Volevo assaggiare tutto. Non avevo fame, mangiai solo per la curiosità di sentire quei sapori, tanto esotici ed accoglienti. Ogni tanto qualcuno mi spingeva mentre camminava, per farsi strada fra la folla e proseguire. C’era aria di festa, trepidazione, euforia, misticismo.
Giusto all’altro estremo della città un grande lago ne occupava il territorio. Acqua sacra. Acqua Santa. Ed i tramonti, con il sole grande, arancione, rosso e vivo. Ancora magia.
Tutti i giorni i fedeli si recano a bagnarsi nell’acqua santa capace di ripulire l’anima da tutti i peccati e donare loro la salvezza. Qui è situato il tempio dedicato ad una delle divinità principali dell’Induismo, Brahma il creatore. La leggenda narra che fece un bagno in quelle acque facendole così diventare sacre. Pushkar è ora tra i principali centri di pellegrinaggio dell’Induismo.
Sono rimasta a Pushkar diversi giorni, appoggiandomi nella guesthouse di un giovane indiano estremamente magro, Siri. Mi raccontò di essere un insegnante di meditazione ma non gli credetti. Era buono e gentile, passava la giornata a fumare marijuana raccontando a sé stesso e agli altri che questo lo aiutava a meditare. Poi la sera usciva per andare ai concerti organizzati in occasione della fiera del cammello. Si ritrovavano nel rooftop della guesthouse in cinque o sei amici, bevevano birra, fumavano e poi uscivano. A me non interessava. In quel periodo praticavo yoga tutti i giorni all’alba. Quindi mi svegliavo e stendevo il tappetino in quello stesso rooftop trovando i resti della sera prima, lattine di birra e porta ceneri pieni. Tutto sommato mi piaceva.
Negli anni ho imparato a distinguere i veri maestri dai ciarlatani. In India, in Italia, in tutto il mondo ci sono tante persone che si spacciano per guaritori, insegnanti di yoga o meditazione. Per arrivare a definirsi tale sono necessari anni di pratica e di studio delle scritture. È necessario adottare un determinato stile di vita. Questo non significa conformarsi a qualche scienza occulta o religione, al contrario vuol dire vivere liberi da dogmi, alla luce del sole, nel rispetto del corpo e delle altre persone. Essere insegnante di yoga vuol dire aiutare gli altri a prendere consapevolezza del loro, del nostro, potere. Quello che risiede dentro ogni persona. Non importa quel che facciamo, l’importante è come lo facciamo.
Possiamo anche scegliere di vivere così, come faceva Siri, perennemente annebbiato dalla marijuana, se questo ci rende sereni e spensierati. Il problema giunge solo quando vogliamo persuadere gli altri, infondendo loro la nostra interpretazione dei fatti e della vita, la nostra verità.
Siri raccontava che fumare lo aiutava ad elevarsi, a concentrarsi, a meditare. Non posso conoscere gli effetti che l’erba avesse su di lui ma posso affermare che fumo e yoga non hanno nulla a che vedere l’un l’altro. Non ho niente contro la marijuana, sono anzi consapevole delle sue proprietà terapeutiche. L’alcol è la vera droga non il fumo.
Ma per quanto concerne lo yoga, la marijuana non c’entra proprio nulla. Yoga è disciplina, ordine, forza, lucidità. È una medicina che previene la malattia. Non tutti riescono a portare avanti un percorso yoga proprio perché è necessaria tanta costanza quindi presenza fisica e mentale. Spesso farlo richiede troppe energie ed è più semplice abbandonare.
Il cellulare squilla e mi riporta al presente. Lascio Jodhpur, lascio Pushkar e continuo ad osservare il mio comodino. A Cesenatico. Mentre lo guardo rimango di nuovo rapita da un altro souvenir, un diario comprato in Cambogia. In realtà non è un souvenir ma il quaderno che usavo per preparare le lezioni. Così ritorno a viaggiare ed arrivo nella giungla dove lavoravo. Ricordo le capanne di paglia e legno, ricordo i bagni perennemente allagati, ricordo le centinaia di rane che mi tenevano compagnia, le famiglie di scimmie che arrivavano ogni mattina a rubare le banane nella cucina. Mi chiedo come facessimo a vivere in quelle condizioni ed allo stesso tempo mi auguro di ritrovarmi in una situazione simile al più presto.
La comunità dove lavoravo si chiamava Vagabond Temple, un posto unico, fuori da ogni spazio temporale. Tutti i giorni si tenevano i dharma talks quindi discussioni su filosofia orientale; c’era anche il morning circle, un momento di condivisione di pensieri, difficoltà e progetti. Ogni settimana arrivava nuova gente ed eravamo mediamente sempre più di cinquanta persone.
Là passai il Natale più bello della mia vita. Lontana da ogni tradizione e convenzione ho sentito quel significato di Natale tanto decantato in Occidente. Non c’erano i cappelletti e neanche il mascarpone. Ma c’era voglia di stare insieme e di divertirsi genuinamente.
La mattina del 25 Dicembre dopo la mia lezione giornaliera di yoga e la colazione eravamo tutti riuniti nello Yoga Hall nel nostro morning cirle. Immaginate settanta persone di ogni nazionalità, sconosciuti nella carta ma uniti da qualcosa di più profondo; tutti lontani dalle proprie famiglie per passare il Natale in modo diverso. Forse più consapevole e meno ipocrita di come siamo abituati a fare. Eravamo lì per scelta, non perché dovevamo. Avevamo organizzato anche il Secret Santa, quindi ognuno di noi aveva ricevuto un regalo. Così, alle 10 del mattino la musica elettronica iniziò a vibrare. Si, proprio quella del Sonar di Barcellona. Il volume delle casse era al massimo, abbiamo ballato per ore, ognuno per i fatti suoi, ognuno felice. Droghe? Alcool? Na, niente di tutto ciò. In un retreat center è vietato. Solo energia. Energia, sorrisi e grinta. Non me lo scorderò mai.
Tornata in Italia sono venuta a sapere che quel posto tanto speciale, il Vagabond Temple, è stato chiuso. Con l’arrivo della pandemia e la chiusura del turismo è morto da sé. È stato un colpo al cuore. Non riesco ad immaginare quel tempio di sapienza ed abbracci vuoto, deserto, spopolato da tutte quelle belle persone che vi trovano guarigione e serenità. Penso a quel luogo e lo immagino occupato ora solo da animali. Lucertole, serpenti, iguane, scimmie, gechi, scorpioni, rane. Saranno tutti insieme, a godersi lo spazio che l’uomo gli ha restituito.
E di nuovo a Cesenatico. Sul mio comodino vedo uno spray per ambienti al limone. Me lo regalò la mia guida in Bhutan. Era la fine della settimana passata insieme fra monasteri e camminate in collina, in paesaggi verdi e azzurri. Usavo quello spray proprio nella mia capanna in Cambogia, per dormire meglio. Ora in Italia sono tornata ad usare gli oli essenziali di lavanda, aiutano a rilassarsi. Ma l’odore di limone misto a paglia era decisamente più efficace. Ora, anzi che sognare la foresta, sono tornata ad avere l’incubo dell’ufficio, quando per una ragione o l’altra dovevo lavorare over time ed andavo su tutte le furie perché perdevo la lezione di yoga. Che noia.
Sul mio comodino ci sono anche tanti altri ricordi che ora non passerò in rassegna perché ne sono gelosa. Si, proprio così. Da quando sono tornata mi riesce molto difficile parlare del mio viaggio perché non riesco a pensarlo come ad un’esperienza conclusa. Non voglio disperderlo a parole, lo voglio tenere ben saldo dentro di me.
Questo si scosta dagli insegnamenti dello yoga di non attaccamento, di lasciare andare per fare spazio al nuovo. Uno delle norme etiche dello yoga si chiama Aparigraha, il principio di non accumulazione. Aparigraha invita ad osservare i propri beni materiali e a donare ciò che non ci serve. Le persone sono nate nude e nude moriranno, le cose che possediamo sono in prestito. Le useremo per un po’ fino a quando volente o nolente le dovremo lasciare andare. La moderna filosofia del minimalismo invita sostanzialmente alla stessa riflessione. Ci si prova, non sempre ci si riesce.
Come possiamo lasciare andare qualcosa di cui non vogliamo liberarci? Qualcosa che ci ha formati e si è impossessato di corpo, mente ed anima in modo così profondo e radicato? Il mio maestro risponderebbe che quel qualcosa che ci ha accompagnati durante una parte del nostro percorso ora non ci serve più. Dobbiamo liberarci di esso ed accogliere il nuovo. Un po’ come espirare, quando liberiamo i polmoni per poi tornare a riempirli con ossigeno fresco.
Mi distendo a letto e mentre cerco di addormentarmi con gli oli essenziali di lavanda penso ai negozianti di Jodhpur, ora privati del loro negozio; penso ai mercanti di Pushkar ora privati dei loro banchetti; penso ai Sadhu che errano per l’India, ora privati delle loro elemosina; penso alle popolazioni seminomadi del deserto del Thar, ora private dei loro baratti; penso a Siri, probabilmente con una canna in mano nella sua guesthouse ora rimasta vuota; penso al Vagabond Temple privato delle presenze umane, ora abitato solo da animali; penso alla mia guida in Bhutan, ora privata del suo lavoro.
Penso a tutte queste persone, luoghi ed atmosfere e mi rendo conto che ora non esiste più nulla di tutto ciò. Ritornerà, certo che ritornerà. Ma sarà diverso, sarà mutato così come mutano le stagioni dell’anno, le stagioni della vita. Lo yoga vinyasa insegna a passare da una posizione all’altra adattando il corpo al ritmo della respirazione, così come, dobbiamo adattare il corpo al ritmo che la vita ci propone.
Con questi pensieri chiudo gli occhi ma non riesco a dormire. Con gli occhi chiusi ritorno a viaggiare, inebriata dal profumo di curcuma e cannella, dall’odore delle mucche, soffocata dall’inquinamento di Nuova Delhi ed assordata dal traffico dei clacson della strada; e ancora viaggio, immaginandomi nel mio letto in Cambogia protetta dalla zanzariera, con i versi dei gechi che mi danno la buonanotte e gli sguardi delle rane che sorvegliano la capanna. Era strano addormentarsi in quel contesto ma mai passai una notte insonne, dormivo cullata dalla Natura. Non è forse quello il significato più profondo di Vita?
Quindi no, non potrò mai liberarmi di voi. Non siete dei ricordi, siete parte di me.
Ed il mio zaino in garage? Ho deciso di non muovere lo zaino di un solo centimetro. Sta così bene in garage. Così com’è. Proprio lui che mi ha fatto tanta compagnia, che è stato la mia casa, il mio protettore, perché mai dovrei lasciarlo solo? Preferisco pensare che sta riposando, lo risveglierò poco prima del prossimo viaggio.
Maestro, perdonami.