“Camminavo immerso nei miei pensieri. Si era possibile vivere anche senza la musica da camera, anche senza l’amico, ed era ridicolo sfinirsi in un’importante nostalgia di tepore. La solitudine è indipendenza: l’avevo desiderata e l’avevo conquistata in tanti anni. Era fredda, questo si, ma era anche silenziosa e grande come lo spazio freddo e silente nel quale girano gli astri.”
Herman Hesse, Il lupo della steppa
Durante l’ultimo mese ho trascorso le mie giornate osservando il Mekong, nuotando nelle sue acque, passando ore di fronte alle sue cascate, guardando il sole nascondersi nelle sua riva per lasciar spazio alla luna ed alle stelle così grandi in contrasto al buio della notte.
Credo che il Mekong sia magico, ha un potere ipnotico. Impregnato di storia e di mistero è calmo, accogliente ed orientale.
Non potevo lasciare il Laos senza conoscerlo meglio. Ho così deciso di prendere la slow boat, una barca lenta come dice il nome, che in due giorni mi sta portando alla frontiera thailandese. Sto navigando nel Mekong, nel cuore del Laos, nel pieno della penisola indocinese.
Attorno a me vedo paesaggi di colline a picco sul fiume, abitanti di villaggi e pescatori, bambini che salutano la nostra imbarcazione, alberi giallognoli ed acqua piatta e verde.
Aveva ragione Terzani quando nel libro Un indovino mi disse descrisse questo paese scrivendo che “il Laos non è un posto, ma uno stato d’animo, uno dei luoghi più romantici e quieti dell’Asia, uno degli ultimi rifugi del vecchio fascino d’Oriente”.
Effettivamente è proprio così. Il paese è costernato da templi, palazzi storici ed architetture coloniali risalenti all’epoca dell’Indocina francese.
Nella pace e serenità di Luang Prabang ogni mattina una processione di centinaia di monaci buddisti sfila per le strade, pronti a prendere la propria questua giornaliera.
Le strade sono pulite, a Vang Vieng ci sono persino i bidoni, non ero più abituata. Mai visto uno negli ultimi cinque mesi! Poi ci sono i mercati, con i loro mille colori: tessuti ricamati a mano, argento, dipinti, statuette di Buddha, elefanti, pietre e campane.
Dopo aver passato tre settimane nell’isola di Don Det sono risalita a Nord prendendo innumerevoli autobus. Lì ho incontrato dei ragazzi che venivano a lezione da me, incredibile pensare a quant’è piccolo il mondo nella sua grandezza e quant’è forte il potere delle relazioni che si creano in viaggio: si conosce qualcuno, si condivide qualche momento poi ci si rivede dopo qualche giorno ed è come incontrare un amico di vecchia data.
Ma tutte queste persone chi sono? Una delle parti più esilaranti del viaggio da soli è la perdita dell’identità concepita in senso occidentale. Ci si conosce per quel che si è, senza trucco, senza capelli piastrati, niente vestiti alla moda né etichette professionali. Ancora una volta penso a Terzani il quale si faceva chiamare Anam “il Senzanome”.
Quando ero in India ho riflettuto proprio su questo, sull’identità. Umberto Galimberti nel Dizionario di psicologia la definisce così:
“In psicologia con questo termine si intende l’identità personale, ossia il senso del proprio essere continuo attraverso il tempo e distino, come entità da tutte le altre.
Per J. Locke e D. Hume l’identità è un meccanismo psicologico che ha il suo fondamento non in un’entità sostanziale che noi chiameremo Io, ma nella relazione che la memoria instaura tra le impressioni continuamente mutevoli, e tra il presente e il passato. Da questo punto di vista l’identità non è un dato ma una costruzione della memoria. Questa riflessione filosofica è stata sostanzialmente accolta dalla psicologia che parla di identità e di crisi di identità in ordine alla solidità o alla fragilità di questa costruzione. “
Secondo questa definizione l’identità è ciò che si pensa di essere in base a quelle caratteristiche che ci si attribuisce. Essa deriva dai propri valori morali che sono però mutevoli in funzione ai ruoli sociali ricoperti nei propri contesti di appartenenza.
In India ho incontrato viaggiatori spesso vestiti a stracci, apparentemente trasandati. Una sera parlando con un ragazzo di quel genere rimasi colpita proprio dai suoi indumenti che sembravano così usurati. Per non parlare delle scarpe piene di buchi e ricoperte di polvere nera. Mai avrei detto che quella persona era un ingegnere informatico nella vita (reale?) e pure alquanto benestante. Girava l’India non per trovare se stesso, se vai in India con quella intenzione non farai altro che perderti, ma proprio perché si era ritrovato, aveva deciso di lasciare gli agi della trappola che ben conosciamo per andare alla scoperta della spiritualità indiana, liberandosi dell’identità formale.
Passo primo, ritrovarsi; passo secondo, liberarsi dell’identità; passo terzo, vivere. Sembra un rompicapo: dove sta la logica nel ritrovare me stesso se poi mi devo sbarazzare della mia identità? Che paradosso.
Qui sorge spontanea un’altra domanda: come faccio a sapere chi sono davvero, se vivo realmente libero da condizionamenti di società, amici, genitori, moglie e marito? Come faccio a capire se sto vivendo nel rispetto dei miei più profondi desideri?
Ci sono tante tecniche, ognuno fornirà risposte differenti. Io credo che il primo passo per andare incontro al ritrovamento di sé sia la psicoanalisi. Ma non sono qui per trattare di questo, è un argomento così vasto e complesso che lascio il piacere ai terapeuti. Preferisco piuttosto parlare di qualcosa di mia competenza, qualcosa che ormai conosco bene: il silenzio.
Con silenzio non intendo privazione. Al contrario, più spazio creiamo per questa dimensione e più abbiamo da dare a noi stessi e agli altri.
Krishnamurti, filosofo indiano di grande spessore che mai volle appartenere a nessuna organizzazione o religione, sosteneva che l’ascolto integrale di noi e degli altri è assai difficile in quanto siamo sempre inquinati dalla proiezione delle nostre idee, opinioni, pregiudizi, tendenze ed impulsi: il sottofondo mentale ci domina a tal punto da ostacolare la ricezione esatta di quel che viene detto.
L’autentica comunicazione, scrive Krishnamurti, avviene nel silenzio. Con la scoperta di questa dimensione si accompagna un senso di completa solitudine e solo la mente che abbia compreso il valore della solitudine è in grado di stabilire rapporti che non generano conflitti di alcun tipo.
La sola rivoluzione consiste nel mutamento del singolo ed è estranea a tutte le ideologie della società. Se non cambiamo noi stessi come possiamo pretendere di giudicare la realtà circostante, sparando sentenze, massime e persino diffondendo consigli spassionati?
Penso a una ragazza molto dolce che ho conosciuto a Don Det, avrà avuto vent’anni. Un giorno dopo la lezione di Yoga abbiamo bevuto un tè insieme e mi ha chiesto se ho paura di rimanere da sola. “Alla tua età la gente si sposa e fa figli, compra la casa e la macchina: non ti spaventa l’eventualità di arrivare in ritardo? “. Questa sua paura mi ha fatto sorridere. Credo la risposta sia retorica, altrimenti non sarei qui da mesi in Asia, con uno zaino ed una borsa come compagni di viaggio. Ma, a parte questo, ho letto nella sua curiosità una tenera innocenza.
Anche le persone apparentemente molto indipendenti saranno sempre impregnate dai luoghi comuni della società, da ciò che ci viene inculcato. Sia chiaro che la mia non è una condanna alla vita stabile, tutt’altro. Rifletto piuttosto sull’importanza di camminare liberi dal auto inganno, muovendo ogni passo con consapevolezza e volontà.
Lo Yoga mi piace tanto proprio perché è una metafora della vita. Come dice la parola stessa unisce corpo e mente (Yuj – unione) ed insegna a muovere il corpo avendo coscienza di ogni gesto, a passare da una posizione all’altra respirando con consapevolezza, a prestare attenzione ad ogni parte del corpo in particolare a mani e piedi che sono coloro che ci permettono di rimanere radicati a terra, creando spazio, senza perderci nell’aria.
Non sono per niente esperta di bambini ma spesso si parla della loro spontaneità, visibile a chiunque. Sono liberi. E perché sono liberi? Molti risponderanno che “è facile esserlo quando non si hanno responsabilità”. Io aggiungerei che i bambini sono spensierati perché fanno quello che vogliono, selvaggi come la natura, quasi sempre si divertono, esplorando. Non si preoccupano di passato e futuro, vivono il presente esprimendo i bisogni più basilari. Non appartengono a nessun costrutto sociale.
Ecco, negli ultimi mesi mi sento come una bambina, senza identità, nella solitudine del mio silenzio. Ed è per questo che mi sento felice. Probabilmente non sarà sempre così, ma finché lo sento lo voglio scrivere, scrivere e scrivere proprio per avere un promemoria per quando il cielo sarà più turbolento.
Krishnamurti non è stato l’unico a parlare del silenzio. È solo uno dei tanti saggi orientali. Quando ero immersa nella sacralità del Bhutan, fra monasteri e montagne, ho letto qualche libro del monaco buddista Thich Nhat Hanh, una delle figure più importanti della spiritualità mondiale. Attivista per la pace venne candidato al Nobel da Martin Luther King. Egli parla del percorso da intraprendere per uscire dalla gabbia che ci priva della libertà, affermando che ognuno di noi già conosce la via della pace e questa è l’unica capace di ristabilire ordine e chiarezza. È solo questione di ritrovarla e risvegliarla (passo primo: ritrovamento).
Thich Nhat Hanh scrive che la nostra casa è quella che il Buddha chiamava l’isola del sé, un luogo tranquillo dentro di noi. Spesso non ci accorgiamo nemmeno che è lì poiché l’ambiente esterno è pieno di rumore. Abbiamo bisogno di silenzio per trovare l’isola del sé.
La nostra società è orientata agli obiettivi al movimento verso un particolare scopo. È quindi rigida, segue uno schema. Il buddismo d’altro lato insegna che non vi è nessuno scopo da perseguire, tutto è già dentro di te.
Ed allora liberiamoci di questa identità, delle nostre catene, delle false limitazioni ed ascoltiamoci, in silenzio. Sarà la comunicazione più intensa e genuina che abbiamo mai sperimentato. Con noi stessi e con gli altri (passo secondo: perdita dell’identità).
Vorrei concludere questo articolo con un tocco di romanticismo, descrivendo l’atmosfera sulla barca nel Mekong, del silenzio della natura e delle acque.
Ma la realtà è un’altra: seduto accanto a me c’è un bambino che non smette di gridare, ridere e giocare. È libero, fa quello che vuole e si diverte. Lui si che ha trovato la sua isola del sé (passo terzo: vivere).
Così lo osservo e cerco di imparare, dovrei forse mettermi a gridare anche io, correndo su e giù per la barca importunando gli sconosciuti?
Forse è questo il prossimo gradino per ritenermi davvero immersa nel passo terzo: vivere.
Se mi rinchiudono in una casa di salute mentale venitemi a prendere, sono più lucida che mai!
Dal Mekong è tutto cari lettori.